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La magìa della bottega di Mario Daolio

Venerdi, 21 Maggio 2010, 10:25

Mario


Itinerario artistico alla scoperta di un creativo luogo d'incontro

A ottant’anni il rifugio di Mario Daolio continua ad essere la sua bottega: prima in via IV Novembre, poi s’è spostato non molto in là, in via Verdi, di fronte al Teatro. Una zona franca per gli artisti della Bassa. E a Guastalla «rivive» un po’ di Roma. Infatti per tutti, dagli anni Sessanta, quel luogo è la piccola Margutta.

«Fu il critico d’arte Nevio Iori a battezzarla così. Ci si ritrovava in tanti nella mia bottega durante la settimana. Si parlava di prospettiva e colore, dovevamo imparare, pittori che studiavano con me. In bottega ho lavorato come verniciatore di mobili e poi come corniciaio. Spontaneamente, arrivò l’idea delle collettive: di domenica e in occasione delle due fiere di Guastalla. Mostre grandi o piccole, a seconda del posto che c’era, andarono avanti per anni...»

Ma chi espose alla Piccola Margutta?

«Gli amici con cui dividevo la passione per la pittura: Mario e Vittorio Colombo, Marino Mazzoni, Umberto Mora, Eo Pasqualini. Credo che tutto iniziò grazie a don Ambrogio Morani: mi convinse ad organizzare una mostra benefica per il Madagascar. Ricordo la personale, nel 1963, di Pietro Ghizzardi. Mi piaceva la sua semplicità, una volta in pieno inverno e con la neve che scendeva arrivò in bottega con le scarpe bucate: gliele legai con degli stracci».

Ci furono contatti con Antonio Ligabue? 

«Era un grande della pittura, a cui piaceva però stare da solo. Mi diede un piccolo disegno raffigurante un animale. Volevo vederlo all’opera e ci riuscii all’osteria Croce Bianca: stava dipingendo una tigre che, prima tratteggiò nel corpo, per poi completarla con il pennello».

E lei quando scoprì la vena artistica?

«In Francia, dove emigrai nel 1949 perché a Guastalla non si trovava lavoro. In famiglia c’era bisogno e avevo cominciato molto presto a lavorare, già a sette anni, imparando il mestiere di verniciatore di mobili. Andavo a scuola, ma fare i compiti era un problema, visto che lavoravo sino alle otto e mezza di sera...

Una vita dura. Comunque a 19 anni me ne andai in Francia e lì un giorno, dovendo verniciare la camera da letto di una bravissima pittrice, feci l’incontro giusto, perché quell’artista che si chiamava Denise m’incoraggiò, insegnandomi l’uso dei colori. E ho continuato su quella strada: studiavo libri francesi di pittura, dipingevo nature morte e paesaggi. Ho studiato la prospettiva, l’anatomia. Il professor Sergio Negri è convinto che sarei diventato un gran pittore se avessi fatto l’Accademia. Se fossi nato in una famiglia benestante, chissà!»

Alla fine degli anni ’50 tornò definitivamente a Guastalla. Un ritorno all’ambiente fluviale sempre amato, che iniziò però a vedere con l’occhio del pittore. In tanti la ricordano in motorino, con il cavalletto dietro le spalle, che puntava verso il Po...

«Ho sempre cercato, ogni giorno, di ritagliarmi due ore tutte per me, per rilassarmi e dipingere dal vero, per poi rientrare in bottega. Disegnare i salici era la mia passione e mi piaceva stare nei boschi, sentire la neve cadere sulle foglie o vedere la lepre che, furtiva, ti passa accanto. Due ore con pastelli e gessetti in mano, per ritrarre barche immerse nella nebbia, casolari, bugni. Ci sono dei momenti in cui, all’improvviso, il paesaggio lo individui chiaramente e senti il desiderio di ritrarlo».

Lei parla spesso al passato, perché?

«Otto anni fa ho avuto un serio incidente in motorino e le conseguenze mi stanno frenando molto nella pittura. A stare in piedi mi stanco. Una vera disdetta, ero già in pensione e volevo dedicarmi ancor di più all’arte, invece... Non vado più in motorino, non vado più da nessuna parte. Ma non è solo quello, l’ambiente del Po è cambiato troppo, difficile trovare gli angoli selvaggi che mi sono sempre piaciuti. Sarò un inguaribile nostalgico, ma i paesaggi tipici adesso non ci sono più». 

Un’altra sua grande passione: i ritratti. Di gente semplice, spesso personaggi caratteristici di una Guastalla che non c’è più. Persone che frequentavano la sua bottega...

«Già, i bevitori del Po (ride). Pensi che una volta Arnaldo Bartoli mi disse: “Quando non avrai più questi soggetti non dipingerai più”. Aveva ragione, mi mancano molto i vari Finòn, Piròl, Mignen, la Berenice, perennemente squattrinati. Nel ritratto mi piace cogliere l’espressione della persona, le caratteristiche. Li faccio con tutte le tecniche, con quello che mi viene in mano. Per esempio mescolo, in una tazza o in un portacicche, la cenere di sigaretta con il lambrusco e poi con le dita eseguo il ritratto: m’è accaduto tante volte, nelle osterie che incrociavo nei miei giri lungo gli argini del fiume».

Le immagini di Madonne e Santi non mancano nella sua bottega: da dove nasce questa profonda religiosità?

«Pensi che ero comunista, ma mai ateo, con quel cacciatore di anime di don Ambrogio ho sempre parlato a lungo. E poi nella vita c’è sempre una svolta e la religione mi ha aiutato tanto. Sono più sicuro, anche nella pittura, da quando ho la fede. Ascolto tutti i giorni Radio Maria, vado a messa, prego molto, ho vissuto in una chiesa di Parma dei momenti forti, mistici, miracolosi».

Un pittore credente che non ha mai amato apparire: perché?

«Ho partecipato ad alcune mostre, ma non sono mai stato attento alle pubbliche relazioni, mi piace solo esprimermi. Ho fatto quello che mi sentivo, stare con gli amici, nella piccola Margutta, il periodo più bello...».

Tiziano Soresina

da: Gazzetta di Reggio — 02 aprile 2010 —

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